sabato 31 dicembre 2011

Archi Live - Architettu​ra dal Vivo - Puntata 4


Questo è il link attaverso il quale è possibile vedere la puntata 4 della serie Archi Live architettura dal Vivo, nella quale è stato inserito il mio video 'Visioni labirintiche', di cui ho già scritto qualche post fa. Ora è pubblicato anche sul canale
dell'Associazione Italiana di Architettura e Critica, che invito a visitare.
Al di là del caso personale, consiglio di vedere tutte le puntate della serie perchè rappresentano un modo originale di raccontare l'architettura.

The clock


Il prezioso lavoro di Cristian Marclay, giustamente premiato alla Biennale d'Arte Contemporanea di Venezia 2011 con il Leone d'Oro. Questo è un frammento di un video composto da scene che hanno in comune la presenza di orologi che segnano, rigorosamente lo scorrere del tempo, di minuto in minuto.

Un capolavoro, che sarà purtroppo, difficile da rivedere.


Non è un caso che l'abbia inserito oggi quando molti passeranno il tempo a guardare l'orologio e scandire i secondi. Lo considero un invito, in primis a me stessa, a considerare ogni minuto degno di attenzione, perchè nel tempo che abbiamo a disposizione si renda tributo al proprio talento.
Ammesso di averne uno e ammessa ci sia data la possibilità di esprimerci. 



lunedì 26 dicembre 2011

Il libro illeggibile

Non è con spirito polemico che inizio una serie di post nei quali scriverò dei libri che ultimamente mi hanno sorpreso e insegnato qualcosa, ma con un piccolo libro che è un oggetto di culto per ogni architetto:

Libro illeggibile MN1 di Bruno Munari


Il formato è quadrato, composto da una serie di fogli rilegati attraverso un cordoncino rosso, la cui copertina lascia intravedere agli angoli una serie di pagine, a diversi colori, tagliate a formare triangoli, trapezi, quadrati. La composizione delle pagine è asimmetrica, mentre è naturalmente simmetrica speculare quella dei colori.


Il progetto risale al 1984 per la casa editrice Maurizio Corraini di Mantova, che ancora oggi fortunatamente si occupa di ristampare e custodire l’opera di Munari, mentre i primi libri illeggibili risalgono al 1949. Si tratta di racconti visivi dove la storia si sviluppa attraverso l’esperienza sensoriale e percettiva del ‘lettore’. Ne esistono diversi tipi, ad esempio il Libro illeggibile N.Y.1 realizzato nel 1967 per il MOMA, nel quale un filo rosso attraversa le pagine passando da un foro centrale, interagendo con le pagine, di materiali e spessori diversi, oltre che con il ‘lettore’ che nello sfogliarlo parteciperà al racconto e insieme alla percezione di sé.


L’idea fondamentale di questo libro, così come di tutta l’opera di Munari, è la ricerca di un approccio fanciullesco alla realtà, dove la percezione sensoriale sia parte integrante della forma con cui ci mettiamo in relazione, senza trascurare un senso dell’ironia tutt’altro che superficiale.
Attualmente viene stampato solo MN1; credo che sarebbe indispensabile ripubblicare tutti gli esemplari affinché quei racconti non siano privilegio dei visitatori del MOMA, ma possano essere uno strumento di educazione anche per le giovani generazioni, in virtù di quella responsabilità che hanno gli artisti verso il bello e il sapere.


sabato 17 dicembre 2011

Anestesie simmetriche


Anestesia simmetriche fra me e il mio pc. Sono consapevole che esista una pressochè totale identificazione fra me e il mio lavoro. Questo era il disco fisso la cui sorte ha interrotto il mio lavoro per qualche giorno, nonchè l'aggiornamento di questo blog. Quando ha smesso di dare segni di vita, la diagnosi è stata: disco danneggiato. Con allegato dubbio sulla possibilità di ripristinare tutti i dati, le mie ricerche, tutti i working progress, in sintesi i miei ultimi 7 anni di vita. Il numero biblico non è mai un caso. Così nemmeno il fatto che entrambi fossimo 'sotto anestesia' nello stesso momento.
Forse è il prologo di un nuovo corso.

giovedì 24 novembre 2011

Fantasia si è nascosta

Ogni tanto i miei libri spariscono per un po' è non riesco a trovarli. Uno dei più costanti in queste fughe temporanee, è Fantasia di Bruno Munari che lessi per prima volta durante il terzo anno di liceo, e ho riletto più volte nel corso degli anni, a sua discrezione, perchè si fa trovare quando meno credo di averne la necessità.
Pochi giorni fa cercando qualche informazione contenuta in quel libro, ho trovato su youtube una serie di video tratti da una lezione che Bruno Munari tenne allo IUAV. Data la rarità con cui si riescono a vedere questo tipo di documenti preziosi, inserisco il link per poter assistere ad anni di distanza alla lezione di un maestro, alla quale per questione d'anagrafe non potevo essere presente.

Durante i miei anni di studio allo IUAV ho assistito a lezioni di altri grandi architetti, ad esempio Paolo Soleri e Peter Cook; mi piacerebbe che le riprese che furono fatte all'epoca, così come quelle di oggi, fossero messe a disposizione in un canale pubblico come nel caso di questa lezione del 1992.

http://www.youtube.com/user/bMunArt#p/u/28/iFlZRQrjInw

domenica 13 novembre 2011

'Church of Fear...' Christoph Schlingensief


'Church of fear...' è il titolo dell'installazione ospitata nel Padiglione Germania alla Biennale d'Arte di Venezia 2011, che racconta e celebra la vita e le opere del suo autore, Christoph Schlingensief, scomparso nel 2010.
Leone per la miglior partecipazione nazionale.


Come già nella Chiesa di San Lio, ricorre quest’anno l’ambientazione ecclesiale. Se nell’installazione di  Lech Majewski si ricordano due storici sacrifici, riproposti attraverso due video installati al lati dell’altare maggiore come pale dal’altare moderne, Churh of fear è la riproposizione della chiesa dove durante l’infanzia Christoph Schlingensief ha servito messa, diventata scenografia per il racconto di una vita. Gli altari diventano teche con gli oggetti appartenuti al celebrato, lumini votivi, le statue diventano il letto d’ospedale. A raccontare questa installazione, un video ‘di fortuna’ (la mia videocamera dotata di capacità decisionali superiori alla norma, non mi ha concesso altre riprese), limitato fra l’altro anche dalla quantità di persone all’interno del padiglione. Vuole essere un breve racconto visivo, che risente del modo di vedere di chi l’ha fatto, per dare la sensazione di un’installazione che racconta la vita di un uomo, le sue ricerche, i dolori, i lavori, celebrandone l’esistenza, in modo tutt’altro che pomposo, ma commovente e partecipato da tutto il pubblico presente, che come si conviene in una chiesa, era seduto sui banchi di legno. Nessuno, durante la mia permanenza, è salito sull’altare fra gli oggetti che ricordano la malattia dell’artista.

lunedì 31 ottobre 2011

L’arte non è cosa del Padiglione Italia

E’ interessante la pervicacia con cui l’Italia in questa fase storica si ostina a dare la peggiore immagine di sé.
‘L’arte non è cosa nostra’ è la scritta al neon che campeggia negli spazi del Padiglione italiano alla Biennale; forse non si è tenuto conto dell’involontario doppio senso dell’affermazione, perché basta a descrivere l’esposizione. Se a qualcuno vedendo quella frase, fosse venuto il dubbio, entrando ne avrebbe avuto la conferma. Se, ancora, alcune opere avessero una qualche valenza, o quantomeno le si volessero approfondire, non è data la possibilità; alcune sono troppo in alto, distorte prospetticamente, altre sono troppe e lo spazio troppo angusto per permetterne una visione corretta, altre ancora sono un palese, e agghiacciante, tributo al servilismo. Manca una caratteristica che io considero una qualità necessaria e indispensabile, la sintesi del progetto, e il coraggio di scegliere sulla base del tema scelto. In questo caso invece, emerge solo il chiasso visivo di un’esposizione logorroica che denuncia in quella frase la sua inadeguatezza.

mercoledì 26 ottobre 2011

Archi LIVE. Canale 813 SKY

Archi LIVE - Architettura dal Vivo', è un format a cura dell'Associazione Italiana di Architettura e Critica e del Laboratorio presS/Tfactory, che a partire dal 3 ottobre viene trasmesso sul  Canale 813 di SKY.

Nel corso di questa settimana verrà trasmessa la quarta puntata con all'interno il mio video 'Visioni labirintiche'.

domenica 23 ottobre 2011

Chance

Il concetto di arte non è sintetizzabile con un aforisma, ma nel caso di 'Chance' è l’opera stessa ad essere un ottima descrizione di cos’è un’installazione. È un percorso emotivo che racconta l’idea dell’artista e insieme suggestiona l’astante che attraverso le sue sensazioni sarà sollecitato a riflettere sul tema dell’installazione e su quelli che nasceranno dalle sue esperienze personali.

‘Chance’ è l’allestimento, toccante e lacerante insieme, di Christian Boltanski all’interno del Padiglione Francia ai Giardini della Biennale. Uno spazio labirintico tridimensionale, realizzato con tubi innocenti, all’interno del quale, come fosse una grande rotativa, scorre una macropellicola nella quale ad ogni fotogramma corrisponde il primo piano di un neonato. Appena si entra si viene investiti dal suono ferroso della macchina, dallo scorrere delle immagini e dalla vertigine nel percorrere la griglia cubica nella quale ci si muove, e nella quale non ci si può che muovere guardando verso l’alto a seguire l’andamento delle facce. È una macchina della quale siamo spettatori sebbene sembri di esserne risucchiati come Charlot in ‘Tempi moderni’. Nella stanze laterali due display non smettono di scorrere numeri, mentre nella stanza centrale, oltre la macchina, scorrono invece delle composizioni casuali di volti scomposti, in primo piano, di adulti e bambini, che attraverso un pulsante si possono bloccare per ottenere dei volti più o meno verosimili.

È un opera, termine da usare con parsimonia, che trae la sua forza dal fatto di essere un progetto. Per questo è densa di temi e sottotemi. La prima sensazione è quella di trovarsi all’interno della macchina di un demiurgo in grado di produrre esseri umani, da qui il pensiero si sposta al ricordo di quelle aberrazioni del primo ‘900, alla Shoah, alla necessità di preservarne la memoria perché quel male non si ripeta. Il monito alla memoria si fa più forte quando una sirena annuncia lo stop della rotativa e quelle facce che prima scorrevano indistinte, ora si distinguono chiaramente e richiamano all’idea di storia individuale e collettiva.
Talvolta le installazioni sono viste con scetticismo dal pubblico, sia per scarsità dell’installazione stessa, quando si vuole stupire gratuitamente, sia per la pigrizia nel volerne comprendere le ragioni. 'Chance' è prima di tutto un progetto preciso. Sia teorico che spaziale. Per questa complessità merita l’attenzione e di viverne l’esperienza.


mercoledì 19 ottobre 2011

'The jump'


Video del 1978 di Jack Goldstein, attualmente proiettato all'ingresso del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Più che un video è un'esortazione a volare alto, alla ricerca di illuminazioni.

domenica 25 settembre 2011

Il trionfo della bellezza. Casino Venier

Casino Venier è uno scrigno prezioso nascosto agli occhi dei visitatori distratti dalle calli commerciali fra San Marco e Rialto.


È una piccola porzione di palazzo, nel quale la signora Venier, Elena Priuli, moglie del procuratore Venier, organizzava feste, incontri letterari e privati. È composto, in scala minore, come un tipico palazzo: sala centrale su cui si aprono quelle laterali. Attualmente è sede dell’Associazione Culturale Italo-Francese, Alliance Française, che per la Biennale ha organizzato la mostra Megachromia di Roger de Montebello. È una piccola esposizione che si sviluppa in due stanze, dove nella prima vi sono dei light box con immagini di strati di colore ad alta definizione, mentre nella seconda stanza vi sono una serie di piccoli quadri con soggetti veneziani e ritratti, che, mi è stato spiegato dalla gentile guida, sono i dipinti, da cui sono tratti, ingranditi, i dettagli della prima stanza. Oltre alla buona pittura, ultimamente trascurata, trovo interessante il metodo di esporre le opere, e di leggere le cromie, perché i dettagli fotografano il passaggio dall’astratto al figurativo, mostrando come siano in realtà legati dal gesto della composizione, giungendo, nell’esposizione, ad una sintesi fra i due.


Al di là della sorpresa piacevole di questa mostra, vi è la sorpresa di entrare in uno spazio che sebbene piccolo, si avverte denso di storie, dove gli accorgimenti architettonici raccontano delle dinamiche interne. Sulla parete che si ha alle spalle salendo la scala d’accesso, vi sono due grate laterali e una centrale; mi è stato raccontato che la loro funzione era quella di diffondere la musica che i musicisti suonavano nella stanza retrostante, senza essere visti dagli ospiti. L’occhio è il protagonista di questo spazio, perchè le pareti sono rivestite di specchi, che allargano lo spazio e aumentano la luce, era privato della vista degli estranei, e controllava da un piccolo elemento della pavimentazione asportabile, chi dal piano terra avesse intenzione di entrare. È un ambiente ovattato, decorato di stucchi e specchi, femminile, poetico di una bellezza fragile, che le foto non possono trasferire, e per questo da osservare e visitare con la giusta disposizione.


Quando ci si trova davanti alla bellezza, le riserve si dissolvono, e non resta che abbandonarsi alla contemplazione. È destabilizzante quando questo stato d’animo si incontra due volte nello stesso giorno.

Il trionfo della bellezza. Bruegel Suite

Nella Chiesa di San Lio c’è un nuovo capolavoro, 'Bruegel Suite' di Lech Majewski.


Uso questa parola senza timore perché, come già accadde per 'L’ultima Cena' e 'Le nozze di Cana' di Peter Greenaway, l’arte antica prende vita attraverso il cinema e stimola a cambiare le nostre percezioni. Da una parte l’antico viene rivisto attraverso la tecnologia e ritorna a parlarci con nuovi codici, dall’altra siamo difronte alla vocazione più pura del cinema, raccontare storie manipolando le immagini. È un evento collaterale della Biennale, ospitato in una chiesa del patriarcato che mi fa supporre sia una sorta di preludio alla prossima partecipazione del Vaticano con un suo padiglione (del quale quest’anno comprendo e condivido l’assenza, ma non posso proprio, per la generale pochezza di temi, non sentirne la mancanza). L’esposizione si compone di due video collocati al lati dell’altare maggiore, ispirati alla Salita al Calvario di Bruegel, descrivono in parallelo due sacrifici, quello di Gesù, e l’altro, di un anonimo, ad opera delle milizie spagnole contro gli eretici delle Fiandre nel 1563. Si ha un impatto potente con le immagini, la cui composizione è realizzata con una serie di fotomontaggi, come layers sovrapposti, a prospettive diverse, che creano quadri complessi, immaginifici, senza edulcorare la violenza che viene descritta, ma portandola su un piano quasi metafisico. L’ambientazione amplifica il significato spirituale dei video, grazie anche al fatto che si assiste ai martìri seduti sui banchi di una chiesa in funzione, dove gli schermi sono collocati come altari, in una logica continuità con quelli esistenti.



Lungo la navata sinistra vi sono altri video che ripropongono sequenze ispirate alle ambientazioni dei quadri di Bruegel, realizzate con la stessa tecnica della sovrapposizione di prospettive, nelle quali i personaggi si muovono, osservati da Bruegel stesso.

Questi video fanno parte di un film dal titolo ‘The mills and the cross’ di Lech Majewski con un perfetto Rutger Hauer che interpreta Bruegel, Michael York nelle vesti di Jonghelinck, banchiere e collezionista, amico di Bruegel, e Charlotte Rampling che interpreta Maria.
Il trailer e altre informazioni sono contenute nel sito http://www.themillandthecross.com/

Kazuyo Sejima. Lectio magistralis

Al Cersaie, a Bologna, è stata ospite per una lectio magistralis Kazuyo Sejima che ha raccontato attraverso alcuni progetti, il suo metodo compositivo. Ne è emerso un approccio che si sviluppa in diversi modi, anche contrapposti:
sintetico, nell'affermare la centralità dell’uomo nel concepire il progetto, non solo in rapporto ad un singolo individuo ma valutando come uno spazio architettonico possa rispondere ad esigenze sociali collettive,
essenziale nel privilegiare gli spazi distributivi in funzione del movimento fra un luogo e l’altro,
massimalista, secondo Fulvio Irace che l’ha presentata, perché le sue architetture ‘amplificano l’impatto sul corpo’.


Un approccio al progetto articolato ma essenziale nel risultato che sebbene mi sia lontano, ritengo sia da accogliere per quanto riguarda le linee guida. Meno d’accordo sono con la facile constatazione, fatta durante la presentazione, che una donna possa essere architetto ed esser in grado di pensare e gestire architetture di forte impatto costruttivo e visivo. Evidentemente ancora stupisce.

sabato 17 settembre 2011

Da Cuba a San Servolo

Dopo un assenza di 44 anni la Biennale ospita il Padiglione di Cuba nell’Isola di San Servolo. All’inizio pensavo che la scelta di ‘confinare’ il padiglione in un isola, che sebbene non lontana, è fuori dal flusso turistico, avrebbe penalizzato la visita delle esposizioni che vi si trovano, in realtà mi sono dovuta ricredere. Dal 1725 al 1978 era un luogo ‘altro’, la cui funzione era la cura di malattie mentali. Ora ospita fondazioni, spazi studio e congressuali, ma soprattutto un parco nel quale potersi isolare lontano dal chiasso turistico. Al centro di questo parco, in una dimensione sospesa si trova Cuba. L’esposizione è concepita come una dichiarazione d’amore, da cui il titolo della mostra ‘Cuba mon amour’, tant’è che vi sono esposti sia artisti cubani che italiani e spagnoli.


Mi soffermo sugli artisti cubani.


Alexandre Arrechea con i grattacieli/trottola dall’eloquente titolo ‘The city that stopped dancing’, che rappresenta l’instabilità di una società concentrata sull’ascesa sociale.



L’orizzonte di peso (nella doppia accezione, di forza peso, e di moneta cubana) di Eduardo Ponjuán, tanto labile quanto pesante, il cui simbolismo si lega con l’opera Emigrante di Yoan Capote che si trova all’esterno, dove degli alberi/umani, sono sradicati dal terreno, forse alla ricerca di un altro orizzonte.


Yoan Capote è anche autore dell’autoritratto composto da due ossa di gambe umane che reggono tre blocchi di cemento, ma soprattutto, tutto il peso simbolico annesso.



Duvier del Dago che disegna nello spazio attraverso fili luminosi, rappresenta in questo caso i segnali GPS, il cui sottotesto è l’autonomia di pensiero attraverso la tecnologia e una dimensione spaziale menatale oltre che fisica.

Trattasi di un esordio promettente, che spero si consoliderà nella Biennale di Architettura del 2012.



mercoledì 31 agosto 2011

In attesa di un nuovo Rinascimento

Percorrendo il Canal Grande, all’altezza di campo San Stae, si vedono una sorta di gigantografie tratte dal Polittico dell’Agnello Mistico di Jan Van Eyck, ma ad uno sguardo ravvicinato quella che sembrava un’immagine stampata è in realtà composta da migliaia di piccole uova ognuna decorata in modo diverso. È l’opera di Oksana Mas, ‘Post vs Proto Reinassence’, che rappresenta l’Ucraina alla Biennale. Il concetto principale sta nell’uso di uova di legno, simbolo di rinascita, come elemento unificante le persone cui queste uova sono state affidate per la decorazione, diverse a loro volta per estrazione sociale, storia e cultura. Il risultato è un mosaico composto da ‘pixel’ che compongono una superficie con due piani di lettura a seconda della scala di visione.




Nello stesso campo, all’interno della Chiesa di San Stae c’è la mostra ‘Apiary. Destiny drums’ con installazioni dedicate al tema della struttura sociale delle api, rispetto a quella umana. Se il tema è molto interessante, l’esecuzione mi lascia un po’ perplessa probabilmente perché, come spesso accade si è più concentrati sugli aspetti filosofici del tema che allo svolgimento del tema stesso. È interessante però entrare in uno spazio che di solito è occupato dai banchi, in questa occasione con l’aula completamente sgombra.

Nella Scuola dei Tiraoro e Battioro, a fianco della chiesa, invece, c’è un’altra mostra, ‘Le festin de Chun – Te’, esempio di come il citare, per esempio, Goya ed ambire a stupire e turbare il pubblico con immagini al limite del pornografico, riesca ormai solo a disturbare, tanto ne siamo circondati. È questo un atteggiamento, purtroppo, comune perché a ben vedere anche fra le uova di legno del padiglione ucraino, non mancano disegni volgari e gratuiti.


Sono sempre dell’avviso che chi vuole fare dell’arte deve ambire a cercare e creare ‘bellezza’, con senso di responsabilità verso il cosmo al fine di migliorare il genere umano e la sua vita. È su questo senso di responsabilità che la mia generazione deve fare leva per aspirare ad un nuovo, e quanto mai necessario, Rinascimento.

giovedì 25 agosto 2011

Senza fiato

A Palazzo Zenobio, al Collegio Armeno Moorat-Raphael, si succedono una serie di padiglioni nazionali.

Mher Azatyan, Grigor Khachatryan, Astghik Melkonyan - Manuals: Subjects of New Universality - Armenia: una serie di lavori ispirati alle turbolenze sociali, all’idea di potere o all’influenza delle dinamiche sociali sull’andamento del salario medio mensile. Purtroppo una necessaria lezione cui i politici dovrebbero assistere.


Libia Castro e Ólafur Ólafsson -‘Il tuo paese non esiste’ - Islanda: forti dell’esperienza islandese e del suo tracollo finanziario, hanno realizzato un video a Venezia nel quale una cantante e dei musicisti percorrono i canali intonando una composizione originale proclamando come un mantra (scaramantico?): ‘il tuo paese non esiste’. Suppongo non s’ispirino ad una idea di realtà stile Matrix.
  

Anastasia Khoroshilova - Starie Novosti (Old News) - Biblioteca Zenobiana del Temanza: una serie di lightbox all’interno di una sorta di cassa per il trasporto di merci, aperti a libro per ricordarci la strage di Beslan del 2004, da una parte il racconto giornalistico dei fatti di cronaca, dall’altra la foto in piano americano di alcune delle protagoniste superstiti che ti guardano in faccia, per ricordarti che quegli occhi hanno visto l’orrore.

Questi padiglioni offrono l’occasione di riflettere su come gli aspetti politici influenzino i soggetti artistici oggi, ma anche di visitare spazi del collegio come la lavanderia (mai lavanderia fu così poetica), la biblioteca e le sale interne del collegio. Ma quello che toglie il fiato è la Sala degli Specchi, un luogo che distende i pensieri e l’anima. Vi sono passati il giovane Tiepolo e Lazzarini, e poi scultori, per gli stucchi, e musicisti per le feste che vi si sono svolte, per non parlare delle vicende che quegli specchi avranno riflesso. Tanta bellezza concentrata in due sole stanze non è rapportabile a nessuna delle opere viste finora e mi fa pensare che probabilmente l’arte per riuscire ancora a comunicare agli animi umani, pur non trascurando la costruzione logica del concetto, deve recuperare il rapporto con l’artigianalità, con il sapere manuale, spesso più potente dell’ostinata ricerca dell’originalità.
 
  
La Sala degli Specchi è in fase di restauro e per vederla bisogna pagare un biglietto, irrisorio, che serve per finanziare i lavori di restauro. Anche per questa finalità merita una visita.


venerdì 19 agosto 2011

Future Pass - From Asia to the World - 2

La seconda parte della mostra Future Pass-From Asia to the World si trova in Strada Nova a Palazzo Mangilli-Valmarana ed è anche questa una mostra divertente, nella quale si trova ancora l’estetica pop-gloss arricchita qui da neon e sensori che animano i personaggi che si incontrano nelle varie stanze. Le sale del palazzo sono popolate da esseri alieni, infantili, collocati in un rapporto dialettico con le sale e le loro decorazioni. Qui i ‘personaggi ed interpreti’ di questo percorso espositivo, che somiglia ad una pochade teatrale, sono fra gli altri: la piccola sciantosa che si guarda alla specchio ignara di essere osservata dall’affresco sul soffitto (che ne avverta la minaccia?), di Luo Zhenhong, i cyber bambini con facce minacciose, di Oliver Pauwels, un angelo manga capriccioso che sorprende quando gli si passa davanti di Shy Gong, o robot dalla faccia emoticon o quelli di Ye Yili dagli occhi mobili che ti guardano ma non vedono.





Il risultato è un’esposizione libera da alcuni vincoli concettualistici che spesso rendono la percezione complessa, questo non vuol dire che i lavori siano privi di sottotesti e atteggiamento critico verso l’uso spasmodico della tecnologia o dell’estetica dell’apparenza, ma che questi sono espressi in chiave ironica risultando comprensibili a vari livelli.

giovedì 18 agosto 2011

‘The Cloud of Unknowing’

Cercando una traiettoria più silenziosa e meno assolata di Piazza San Marco, si può trovare ospitalità temporanea all’interno di un bellissimo spazio medievale adiacente al Museo Diocesano, che ospita il Padiglione di Singapore rappresentato da Ho Tzu Nyen con il video ‘The Cloud of Unknowing’. Per vederlo si deve salire una scala, arrivare al piano superiore, trovarsi circondati da archi acuti, travi in legno dipinte, la presenza anomala di un ascensore in vetro, e per l’occasione una serie di nuvole bianche su cui abbandonarsi, più che sedersi, che contribuiscono ad esaurire la ‘fase preparatoria alla visione’; la salita ad un livello superiore e le nuvole su cui sdraiarsi.
Il titolo viene da un libro inglese del 14° secolo sulla mistica e sulla preghiera contemplativa attraverso la quale uscire dalle nuvole dell'ignoranza, in una sorta di continuità con lo spazio in cui il video viene proiettato, anche se questo non è determinante, perché non c’è nell’intenzione dell’autore, un unico significato ma ne affida la lettura allo spettatore, forse perché il mondo onirico da cui attinge è molto personale e denso di significati e rimandi. Il plot verte su una serie di persone che vivono nello stesso condominio accumunate dall’essere in procinto di incontrare la nuvola del titolo: l’uomo che mentre dorme, e presumibilmente sogna, sta per essere risucchiato dal letto; quello dal corpo deturpato che vive in uno spazio dal cui soffitto pendono decine di lampadine accese che di lì a poco inizieranno ad accendersi e spegnersi; la donna immobile e apatica, nel suo alloggio con cibo in putrefazione popolato da vermi; uno studioso, circondato da librerie piene di libri e impegnato a scrivere; il batterista che suona mentre comincia a scendere la pioggia, e l’uomo in un ambiente allagato che lava il colore dai capelli, in realtà bianchi. Tutti verranno invasi dalla nuvola bianca della non conoscenza (o incoscienza).



Il momento che il video coglie, per tutti i protagonisti, sembra essere quell’istante in cui si avverte una sensazione enigmatica che non si riesce a decifrare attraverso i sensi, che a mio avviso è chiara nell’episodio dello studioso, quando preso dalla febbre della scrittura e dalla rapidità con cui deve fissare su carta il proprio pensiero, non si accorge, ma forse percepisce, che le librerie si muovono e comprimono lo spazio attorno alla scrivania, e allora tutto il suo sapere si concentra verso il polo attrattivo rappresentato dall’uomo.
Il risultato è in realtà uno spettacolo teatrale coinvolgente di cui colpisce la qualità cinematografica, i rimandi a Lynch e Hitchcock, e il fatto che l’esperienza del video continui anche alla fine quando dal retro dello schermo esce una nube bianca che invade tutta la sala come un monito, perché allo stato di ignoranza nessuno si sottrae.




lunedì 15 agosto 2011

Le voci di Santa Maria della Pietà

Quando si entra nel padiglione delle Zimbabwe bisogna percorrere le scale e i corridoi immaginando il vociare di bambini, e i giochi sparsi, allora tutto acquista un senso maggiore. In questo palazzo da qualche secolo, e in parte anche oggi, venivano ospitati gli orfani della città e qui veniva data loro l’educazione, la cultura e la possibilità di emanciparsi nella società veneziana, tanto da non essere rari i casi di bambini diventati nel tempo, notabili della città. Per questo commuove, appena si percepisce l’assonanza, il rapporto fra le opere esposte e la memoria del luogo. Alle pareti vi sono una serie di tele di Misheck Masamvu che rappresentano immagini di corpi primitivi, densi di dramma intimo e personale. Sono figure che sembrano raccontare del loro abbandono vivendone il dolore in modo sommesso e privato. Il concetto di madre terra e di madre viene espresso nella stanza in cui alcune grandi foto mostrano delle famiglie composite a conclusione di un ciclo espositivo che racconta di una storia personale, quella di Misheck Masamvu, di un malessere universale, e delle storie che sono passate in Santa Maria della Pietà.







Nello stesso complesso si trova anche l’esposizione dell’Irlanda, anch’essa inserita a proposito in questo contesto. Si tratta del lavoro di ricerca di Corban Walker che si basa sull’esplorazione del concetto di misura, trasformando il fuori scala della sua altezza in strumento di misura dello spazio, facendo diventare il proprio corpo, sebbene non rispondente alle misure vitruviane, strumento di misura a sua volta. La struttura collocata al centro della stanza ‘Please Adjust’, è una struttura di cubi metallici che si reggono uno sull’altro secondo le regole del caos, e quelle della lezione di Sol Levitt. Tale approccio al tema è molto interessante, perché è un atteggiamento architettonico, e probabilmente le opere esposte sono limitate rispetto alla produzione di Walker, per averne un quadro completo. Di sicuro è un’affermazione del fatto che i limiti che ognuno ha, devono diventare strumento di comprensione dello spazio e di affermazione personale nella società.


OltreLaMateria

Gennaio 2011.

Primo premio al concorso ‘Oltre la Materia’ indetto da Cotto Veneto S.p.A.

Ne scrivo dopo diversi mesi, come da mia abitudine, quando la felicità per il risultato non ha interrotto le mie ricerche, semmai vi ha infuso nuova energia. Spero vi saranno altri post per aggiornarvi sull’evoluzione del progetto.



sabato 13 agosto 2011

Uno spazio musicale

In questi giorni, quando le correnti d’aria sono a favore, in Calle dei Cerchieri, arriva a prenderti, da lontano, il suono di un pianoforte che ti conduce verso il fondo della calle e mentre potresti affacciarti su una vista parziale del Canal Grande, l’ingresso di Palazzo Loredan dell’Ambasciatore è generosamente aperto e ti invita ad entrare. Ci si trova così al piano terra del palazzo, nel quale, al centro, un pianoforte Stainway, rosso e interamente intagliato a motivi d’ispirazione Maori, viene suonato da un musicista. Questo è l’effetto inaspettato di essere nel padiglione della Nuova Zelanda ad opera di Michael Parekowhai, dove l’installazione coinvolge anche l’esterno, a partire dalla calle, per portare il visitatore a vivere un’esperienza sensoriale simile a quella descritta da John Keats nella poesia ‘On First Looking into Chapman's Homer’, che descrive lo stupore di un avventuriero che vede per la prima volta il Pacifico dall’alto di una collina. L’ardito collegamento fra la musica, vista in questo ambiente come l’elemento che riempie lo spazio e coinvolge emotivamente lo spettatore, continua in due sculture composte da un toro su un pianoforte, una collocata in corrispondenza della porta d’acqua del palazzo (dove poter vedere il Canal Grande da un’angolazione inconsueta), l’altra collocata al centro del giardino privato dalla parte opposta sotto l’occhio vigile di una statua in bronzo che dall’angolo osserva immobile. Al di là degli oggetti scultorei, il cui significato risulta complicato più che complesso, ciò che resta sono i percorsi fra esterno e interno, musica e silenzio. Si esce dal palazzo ancora accompagnati dal suono della musica che al nostro passo scivola in dissolvenza, lasciando un altro punto di vista della città e dell’interpretazione della sensazione di spazio.

Nella breve guida che illustra il padiglione e il lavoro di Michael Parekowhai manca il testo che ha dato l’ispirazione del tema, lo inserirò di seguito, per una maggiore comprensione.


On First Looking into Chapman's Homer

Much have I travell’d in the realms of gold,
And many goodly states and kingdoms seen;
Round many western islands have I been
Which bards in fealty to Apollo hold.
Oft of one wide expanse had I been told
That deep-brow’d Homer ruled as his demesne;
Yet did I never breathe its pure serene
Till I heard Chapman speak out loud and bold:
Then felt I like some watcher of the skies
When a new planet swims into his ken;
Or like stout Cortez when with eagle eyes
He star’d at the Pacific—and all his men
Look’d at each other with a wild surmise—
Silent, upon a peak in Darien.



Guardando per la prima volta l'Omero di Chapman

Molto ho viaggiato nei reami d'oro,
e molti vidi buoni stati e regni,
e tutt'intorno a molte navigai
isole d'occidente, che poeti
mantengono d'Apollo in signoria.
Spesso mi fu narrato d'una vasta
landa cui tiene in suo dominio Omero
dalla fronte profonda; eppure mai,
giammai ho respirato la sua pura
serenità, finché io non udii
Chapman parlare forte e audace: allora
simile ad uno che nei cieli scruta
io mi sentii, quando un nuovo pianeta
nuota sotto il suo sguardo; o al valoroso
Cortés quando fissò con occhi d'aquila
il Pacifico - e tutti i suoi compagni
con febbrile incertezza si guardarono -
silente, sopra un picco in Darién.


In questo giardino, che ricorda vagamente l'ambientazione de 'Il carteggio Aspern', inizia la mia ricerca al giardino descritto da Henry James. Tutto è appena cominciato.

 

martedì 9 agosto 2011

Lo spazio molle

Le Cercle Fermé è il titolo dell’installazione che Martine Feipel e Jean Bechameil hanno realizzato all’interno di Ca’ del Duca sede per l’occasione del Padiglione del Lussemburgo. Si tratta di una serie di stanze alle quali si viene introdotti percorrendo un corridoio stretto e bianco, le cui pareti e decorazioni sembrano essere state deformate da forze ondulatorie che hanno originato uno spazio molle, lungo il quale l’andatura di chi lo percorre ne subisce l’influenza. La sensazione d’instabilità è amplificata dal riflesso del corridoio nello specchio posizionato sul fondo. Le forme sciolte continuano con una serie di cassetti di gomma dipinta di bianco che rivestono le pareti, parzialmente aperti e pendenti dalla loro sede. Il gioco di specchi continua moltiplicato nelle stanze successive dove lo spazio e la riflessione del visitatore subiscono deformazioni da ambientazione Escheriana, con effetti di ripetizione e aberrazioni visive. La stanza delle colonne infine, eterea ma allo stesso tempo claustrofobica.







L’installazione è pensata come una serie di eventi site specific che portano il visitatore a sperimentare diverse idee di spazialità, lavorando su un’idea di spazio fluido e illusorio, a tratti ipnotico che molto deve agli orologi molli di Dalì, così come si ravvede un’assonanza con i meandri di ferro di Richard Serra nei quali le pareti inclinate danno un senso di vertigine. Le similitudini continuano in ambito architettonico/fashion perché non c’è molta differenza fra questi spazi e ad esempio il negozio di Viktor & Rolf a Milano, datato 2007, dove tutto è al contrario, perché anche in questo caso l’intenzione è quella di sorprendere e condurre il visitatore in uno spazio onirico nel quale sperimentare ‘nuove spazialità’, ma probabilmente con molte meno implicazioni filosofiche a sostegno di un’operazione squisitamente ludica. Nell’installazione di Ca’ del Duca invece, sebbene probabilmente non vi sia all’origine, esiste una componente ironica che dialoga con lo spettatore ed è proprio questa la dimensione ‘spaziale’ interessante da cui si può trarre delle suggestioni quando si progetta uno spazio.






 

sabato 30 luglio 2011

Talking heads

Arrivando da Campo Santo Stefano verso Campo San Samuele, ci si imbatte in una pedana rossa che invita a salire e ad affacciarsi ad una finestra per spiare all’interno e incrociare lo sguardo di due homeless intenti a parlare. È l’installazione di sculture parlanti del duo svizzero Glaser/Kunz. L’effetto è straniante perché se da una parte ci si rende conto di essere davanti a dei manichini, la resa della proiezione sulle teste, modellate sul calco degli attori, fa sì che il dubbio di essere davanti ad esseri viventi o ad una macchina ‘pensante’ in grado di seguirti con lo sguardo, esista, e sia motivato dal fatto che il sistema di proiezione non è visibile, sapientemente nascosto all’interno dei sacchetti di cartone posizionati ‘casualmente’ davanti alle teste. Siamo al piano terra del Palazzo Malipiero, abitato per l’occasione da degli homeless parlanti, seduti a terra, ma sospesi in un dialogo sulla loro condizione umana che ricorda Beckett, tanto che si ha l’impressione di essere il Godot che stanno aspettando. L’effetto è amplificato se ad assistere al dialogo si è da soli e le stanze non sono ancora popolate da esseri viventi, perché allora si avrà la sensazione di partecipare ad un evento senza averne l’invito, di vedere una sorta di cinema tridimensionale e polisensoriale, a tratti disturbante ma coinvolgente.


In questo caso l’operazione di Glaser/Kunnz potrebbe sollecitare diversi ambiti artistici (penso ad una sfilata di Gaultier dove i volti di famose attrici venivano proiettati sul velo indossato da una modella) e un diverso approccio al racconto teatrale.

martedì 26 luglio 2011

Il debutto dell'Andorra

In campo San Samuele, nell’omonima chiesa, viene ospitato il Padiglione dell’Andorra, che per la prima volta partecipa alla Biennale. La sede è preziosa e l’esposizione si è rivelata all’altezza, perché nello stesso ambiente si riesce ad avere una lettura scorrevole e una conseguente comprensione chiara di ciò che viene esposto. Gli artisti sono Helena Guàrdia con ‘Ciutat Flotant’ e Francisco Sánchez con ‘L’Efímer i l’etern’, i quali presentano un lavoro sulla percezione visiva della realtà, deformata da strumenti fisici o mentali. Al primo caso appartiene Helena Guàrdia la quale lavora con la fotografie digitali che ritraggono la realtà deformata attraverso specchi concavi. Il risultato sono una serie di immagini che documentano le sue divagazioni visive, presentate come un tributo alla città di Venezia nella veste di città fluttuante. Di fatto ciò che si può cogliere è che deve essere molto più interessante l’esperienza personale di Helena Guàrdia nel suo ricercare nella città punti di vista deformati, piuttosto che la rappresentazione a grande scala di una troppo esigua selezione di foto; perché scalare un’idea non ne amplifica il concetto, ma rischia l’effetto contrario. Probabilmente la scelta di più foto a scala minore avrebbe reso più suggestiva l’esposizione.

Francisco Sànchez invece presenta un trittico realizzato con grafite, che rappresenta una realtà onirica e molecolare, con una capacità tecnica che esalta il disegno, arte dimenticata in favore di un più spicciolo approccio tecnologico all’arte, con conseguente appiattimento della cultura artistica. Sono disegni i suoi che confortano dopo tanta tecnologia, che l’arte possa rappresentare spazi altri con tecniche tradizionali senza diventare accademica.


Per entrambi i protagonisti viene proiettato un breve video nel quale sono resi chiari i due tipi di ricerca e il senso dei lavori, il che contribuisce in modo sostanziale a dare una lettura rapida e chiara del lavoro dei protagonisti.

domenica 10 luglio 2011

Da un punto/ponte di vista

Diversi palazzi veneziani sono diventati sede di esposizioni di vario genere in occasione della Biennale, e camminare in città significa anche essere attirati in spazi che si aprono all’improvviso, alla fine di una calle, o in altri casi ci si può trovare a seguire il fievole suono di un pianoforte che arriva da un palazzo sul Canal Grande, oppure può capitare che il profilo del canale che conosci bene sia improvvisamente cambiato e spunti una struttura ramificata che per quanto organica emerge come un organismo estraneo, o ancora una casetta unifamiliare borghese spigolosa, oppure l’orrore che minaccia il ponte dell’Accademia.

È da questo ponte e dallo stesso punto di vista, che se si punta lo sguardo verso destra si nota la struttura temporanea e in divenire di Big Bamboo di Doug e Mike Starn portata in città da Hogan, una sorta di torre di Tatlin dall’aspetto più precario, la cui salita è solo per spiriti indomiti che non conoscano le vertigini, ma il fascino e l'allegria infantile che suscita nei visitatori è per tutti.



Se si gira invece, lo sguardo verso la riva sinistra del canale, ci aspetta la Narrow House di Erwin Wurm; una forma che disturba lo sguardo, soprattutto se paragonata allo spazio in cui è collocata. Non è un'aberrazione dello sguardo ma una casa dall'aspetto così rassicurante che nasconde in realtà delle deformazioni tali da risultare compressa. In effetti nell’intenzione è la metafora della società austriaca, opprimente e soffocante nella quale l’autore dice di essere cresciuto; esperienza nota anche se per alcuni non immediatamente intellegibile.


  
Se si guarda davanti a sé, purtroppo appare una terza ‘installazione’, questa volta indecorosa, di lucchetti nuovamente comparsi dopo essere già stati rimossi. Ne risparmierei l’immagine, ma credo che l’arte abbia la responsabilità di educare al bello e finché truppe di sedicenti artisti e scrittori continueranno a prediligere immagini e spazi disturbanti, nei quali il concetto di bellezza e armonia vengono stravolti in virtù di un arte che s’ispira alla realtà, ma di fatto risponde a logiche di marketing, allora non mi stupirebbe se l’infilata di ganci fosse confusa con una installazione concettuale sull’interconnessione di spiriti raminghi. Mentre se proprio dovesse avere un senso potrebbe essere quello della stupidità umana.