mercoledì 31 agosto 2011

In attesa di un nuovo Rinascimento

Percorrendo il Canal Grande, all’altezza di campo San Stae, si vedono una sorta di gigantografie tratte dal Polittico dell’Agnello Mistico di Jan Van Eyck, ma ad uno sguardo ravvicinato quella che sembrava un’immagine stampata è in realtà composta da migliaia di piccole uova ognuna decorata in modo diverso. È l’opera di Oksana Mas, ‘Post vs Proto Reinassence’, che rappresenta l’Ucraina alla Biennale. Il concetto principale sta nell’uso di uova di legno, simbolo di rinascita, come elemento unificante le persone cui queste uova sono state affidate per la decorazione, diverse a loro volta per estrazione sociale, storia e cultura. Il risultato è un mosaico composto da ‘pixel’ che compongono una superficie con due piani di lettura a seconda della scala di visione.




Nello stesso campo, all’interno della Chiesa di San Stae c’è la mostra ‘Apiary. Destiny drums’ con installazioni dedicate al tema della struttura sociale delle api, rispetto a quella umana. Se il tema è molto interessante, l’esecuzione mi lascia un po’ perplessa probabilmente perché, come spesso accade si è più concentrati sugli aspetti filosofici del tema che allo svolgimento del tema stesso. È interessante però entrare in uno spazio che di solito è occupato dai banchi, in questa occasione con l’aula completamente sgombra.

Nella Scuola dei Tiraoro e Battioro, a fianco della chiesa, invece, c’è un’altra mostra, ‘Le festin de Chun – Te’, esempio di come il citare, per esempio, Goya ed ambire a stupire e turbare il pubblico con immagini al limite del pornografico, riesca ormai solo a disturbare, tanto ne siamo circondati. È questo un atteggiamento, purtroppo, comune perché a ben vedere anche fra le uova di legno del padiglione ucraino, non mancano disegni volgari e gratuiti.


Sono sempre dell’avviso che chi vuole fare dell’arte deve ambire a cercare e creare ‘bellezza’, con senso di responsabilità verso il cosmo al fine di migliorare il genere umano e la sua vita. È su questo senso di responsabilità che la mia generazione deve fare leva per aspirare ad un nuovo, e quanto mai necessario, Rinascimento.

giovedì 25 agosto 2011

Senza fiato

A Palazzo Zenobio, al Collegio Armeno Moorat-Raphael, si succedono una serie di padiglioni nazionali.

Mher Azatyan, Grigor Khachatryan, Astghik Melkonyan - Manuals: Subjects of New Universality - Armenia: una serie di lavori ispirati alle turbolenze sociali, all’idea di potere o all’influenza delle dinamiche sociali sull’andamento del salario medio mensile. Purtroppo una necessaria lezione cui i politici dovrebbero assistere.


Libia Castro e Ólafur Ólafsson -‘Il tuo paese non esiste’ - Islanda: forti dell’esperienza islandese e del suo tracollo finanziario, hanno realizzato un video a Venezia nel quale una cantante e dei musicisti percorrono i canali intonando una composizione originale proclamando come un mantra (scaramantico?): ‘il tuo paese non esiste’. Suppongo non s’ispirino ad una idea di realtà stile Matrix.
  

Anastasia Khoroshilova - Starie Novosti (Old News) - Biblioteca Zenobiana del Temanza: una serie di lightbox all’interno di una sorta di cassa per il trasporto di merci, aperti a libro per ricordarci la strage di Beslan del 2004, da una parte il racconto giornalistico dei fatti di cronaca, dall’altra la foto in piano americano di alcune delle protagoniste superstiti che ti guardano in faccia, per ricordarti che quegli occhi hanno visto l’orrore.

Questi padiglioni offrono l’occasione di riflettere su come gli aspetti politici influenzino i soggetti artistici oggi, ma anche di visitare spazi del collegio come la lavanderia (mai lavanderia fu così poetica), la biblioteca e le sale interne del collegio. Ma quello che toglie il fiato è la Sala degli Specchi, un luogo che distende i pensieri e l’anima. Vi sono passati il giovane Tiepolo e Lazzarini, e poi scultori, per gli stucchi, e musicisti per le feste che vi si sono svolte, per non parlare delle vicende che quegli specchi avranno riflesso. Tanta bellezza concentrata in due sole stanze non è rapportabile a nessuna delle opere viste finora e mi fa pensare che probabilmente l’arte per riuscire ancora a comunicare agli animi umani, pur non trascurando la costruzione logica del concetto, deve recuperare il rapporto con l’artigianalità, con il sapere manuale, spesso più potente dell’ostinata ricerca dell’originalità.
 
  
La Sala degli Specchi è in fase di restauro e per vederla bisogna pagare un biglietto, irrisorio, che serve per finanziare i lavori di restauro. Anche per questa finalità merita una visita.


venerdì 19 agosto 2011

Future Pass - From Asia to the World - 2

La seconda parte della mostra Future Pass-From Asia to the World si trova in Strada Nova a Palazzo Mangilli-Valmarana ed è anche questa una mostra divertente, nella quale si trova ancora l’estetica pop-gloss arricchita qui da neon e sensori che animano i personaggi che si incontrano nelle varie stanze. Le sale del palazzo sono popolate da esseri alieni, infantili, collocati in un rapporto dialettico con le sale e le loro decorazioni. Qui i ‘personaggi ed interpreti’ di questo percorso espositivo, che somiglia ad una pochade teatrale, sono fra gli altri: la piccola sciantosa che si guarda alla specchio ignara di essere osservata dall’affresco sul soffitto (che ne avverta la minaccia?), di Luo Zhenhong, i cyber bambini con facce minacciose, di Oliver Pauwels, un angelo manga capriccioso che sorprende quando gli si passa davanti di Shy Gong, o robot dalla faccia emoticon o quelli di Ye Yili dagli occhi mobili che ti guardano ma non vedono.





Il risultato è un’esposizione libera da alcuni vincoli concettualistici che spesso rendono la percezione complessa, questo non vuol dire che i lavori siano privi di sottotesti e atteggiamento critico verso l’uso spasmodico della tecnologia o dell’estetica dell’apparenza, ma che questi sono espressi in chiave ironica risultando comprensibili a vari livelli.

giovedì 18 agosto 2011

‘The Cloud of Unknowing’

Cercando una traiettoria più silenziosa e meno assolata di Piazza San Marco, si può trovare ospitalità temporanea all’interno di un bellissimo spazio medievale adiacente al Museo Diocesano, che ospita il Padiglione di Singapore rappresentato da Ho Tzu Nyen con il video ‘The Cloud of Unknowing’. Per vederlo si deve salire una scala, arrivare al piano superiore, trovarsi circondati da archi acuti, travi in legno dipinte, la presenza anomala di un ascensore in vetro, e per l’occasione una serie di nuvole bianche su cui abbandonarsi, più che sedersi, che contribuiscono ad esaurire la ‘fase preparatoria alla visione’; la salita ad un livello superiore e le nuvole su cui sdraiarsi.
Il titolo viene da un libro inglese del 14° secolo sulla mistica e sulla preghiera contemplativa attraverso la quale uscire dalle nuvole dell'ignoranza, in una sorta di continuità con lo spazio in cui il video viene proiettato, anche se questo non è determinante, perché non c’è nell’intenzione dell’autore, un unico significato ma ne affida la lettura allo spettatore, forse perché il mondo onirico da cui attinge è molto personale e denso di significati e rimandi. Il plot verte su una serie di persone che vivono nello stesso condominio accumunate dall’essere in procinto di incontrare la nuvola del titolo: l’uomo che mentre dorme, e presumibilmente sogna, sta per essere risucchiato dal letto; quello dal corpo deturpato che vive in uno spazio dal cui soffitto pendono decine di lampadine accese che di lì a poco inizieranno ad accendersi e spegnersi; la donna immobile e apatica, nel suo alloggio con cibo in putrefazione popolato da vermi; uno studioso, circondato da librerie piene di libri e impegnato a scrivere; il batterista che suona mentre comincia a scendere la pioggia, e l’uomo in un ambiente allagato che lava il colore dai capelli, in realtà bianchi. Tutti verranno invasi dalla nuvola bianca della non conoscenza (o incoscienza).



Il momento che il video coglie, per tutti i protagonisti, sembra essere quell’istante in cui si avverte una sensazione enigmatica che non si riesce a decifrare attraverso i sensi, che a mio avviso è chiara nell’episodio dello studioso, quando preso dalla febbre della scrittura e dalla rapidità con cui deve fissare su carta il proprio pensiero, non si accorge, ma forse percepisce, che le librerie si muovono e comprimono lo spazio attorno alla scrivania, e allora tutto il suo sapere si concentra verso il polo attrattivo rappresentato dall’uomo.
Il risultato è in realtà uno spettacolo teatrale coinvolgente di cui colpisce la qualità cinematografica, i rimandi a Lynch e Hitchcock, e il fatto che l’esperienza del video continui anche alla fine quando dal retro dello schermo esce una nube bianca che invade tutta la sala come un monito, perché allo stato di ignoranza nessuno si sottrae.




lunedì 15 agosto 2011

Le voci di Santa Maria della Pietà

Quando si entra nel padiglione delle Zimbabwe bisogna percorrere le scale e i corridoi immaginando il vociare di bambini, e i giochi sparsi, allora tutto acquista un senso maggiore. In questo palazzo da qualche secolo, e in parte anche oggi, venivano ospitati gli orfani della città e qui veniva data loro l’educazione, la cultura e la possibilità di emanciparsi nella società veneziana, tanto da non essere rari i casi di bambini diventati nel tempo, notabili della città. Per questo commuove, appena si percepisce l’assonanza, il rapporto fra le opere esposte e la memoria del luogo. Alle pareti vi sono una serie di tele di Misheck Masamvu che rappresentano immagini di corpi primitivi, densi di dramma intimo e personale. Sono figure che sembrano raccontare del loro abbandono vivendone il dolore in modo sommesso e privato. Il concetto di madre terra e di madre viene espresso nella stanza in cui alcune grandi foto mostrano delle famiglie composite a conclusione di un ciclo espositivo che racconta di una storia personale, quella di Misheck Masamvu, di un malessere universale, e delle storie che sono passate in Santa Maria della Pietà.







Nello stesso complesso si trova anche l’esposizione dell’Irlanda, anch’essa inserita a proposito in questo contesto. Si tratta del lavoro di ricerca di Corban Walker che si basa sull’esplorazione del concetto di misura, trasformando il fuori scala della sua altezza in strumento di misura dello spazio, facendo diventare il proprio corpo, sebbene non rispondente alle misure vitruviane, strumento di misura a sua volta. La struttura collocata al centro della stanza ‘Please Adjust’, è una struttura di cubi metallici che si reggono uno sull’altro secondo le regole del caos, e quelle della lezione di Sol Levitt. Tale approccio al tema è molto interessante, perché è un atteggiamento architettonico, e probabilmente le opere esposte sono limitate rispetto alla produzione di Walker, per averne un quadro completo. Di sicuro è un’affermazione del fatto che i limiti che ognuno ha, devono diventare strumento di comprensione dello spazio e di affermazione personale nella società.


OltreLaMateria

Gennaio 2011.

Primo premio al concorso ‘Oltre la Materia’ indetto da Cotto Veneto S.p.A.

Ne scrivo dopo diversi mesi, come da mia abitudine, quando la felicità per il risultato non ha interrotto le mie ricerche, semmai vi ha infuso nuova energia. Spero vi saranno altri post per aggiornarvi sull’evoluzione del progetto.



sabato 13 agosto 2011

Uno spazio musicale

In questi giorni, quando le correnti d’aria sono a favore, in Calle dei Cerchieri, arriva a prenderti, da lontano, il suono di un pianoforte che ti conduce verso il fondo della calle e mentre potresti affacciarti su una vista parziale del Canal Grande, l’ingresso di Palazzo Loredan dell’Ambasciatore è generosamente aperto e ti invita ad entrare. Ci si trova così al piano terra del palazzo, nel quale, al centro, un pianoforte Stainway, rosso e interamente intagliato a motivi d’ispirazione Maori, viene suonato da un musicista. Questo è l’effetto inaspettato di essere nel padiglione della Nuova Zelanda ad opera di Michael Parekowhai, dove l’installazione coinvolge anche l’esterno, a partire dalla calle, per portare il visitatore a vivere un’esperienza sensoriale simile a quella descritta da John Keats nella poesia ‘On First Looking into Chapman's Homer’, che descrive lo stupore di un avventuriero che vede per la prima volta il Pacifico dall’alto di una collina. L’ardito collegamento fra la musica, vista in questo ambiente come l’elemento che riempie lo spazio e coinvolge emotivamente lo spettatore, continua in due sculture composte da un toro su un pianoforte, una collocata in corrispondenza della porta d’acqua del palazzo (dove poter vedere il Canal Grande da un’angolazione inconsueta), l’altra collocata al centro del giardino privato dalla parte opposta sotto l’occhio vigile di una statua in bronzo che dall’angolo osserva immobile. Al di là degli oggetti scultorei, il cui significato risulta complicato più che complesso, ciò che resta sono i percorsi fra esterno e interno, musica e silenzio. Si esce dal palazzo ancora accompagnati dal suono della musica che al nostro passo scivola in dissolvenza, lasciando un altro punto di vista della città e dell’interpretazione della sensazione di spazio.

Nella breve guida che illustra il padiglione e il lavoro di Michael Parekowhai manca il testo che ha dato l’ispirazione del tema, lo inserirò di seguito, per una maggiore comprensione.


On First Looking into Chapman's Homer

Much have I travell’d in the realms of gold,
And many goodly states and kingdoms seen;
Round many western islands have I been
Which bards in fealty to Apollo hold.
Oft of one wide expanse had I been told
That deep-brow’d Homer ruled as his demesne;
Yet did I never breathe its pure serene
Till I heard Chapman speak out loud and bold:
Then felt I like some watcher of the skies
When a new planet swims into his ken;
Or like stout Cortez when with eagle eyes
He star’d at the Pacific—and all his men
Look’d at each other with a wild surmise—
Silent, upon a peak in Darien.



Guardando per la prima volta l'Omero di Chapman

Molto ho viaggiato nei reami d'oro,
e molti vidi buoni stati e regni,
e tutt'intorno a molte navigai
isole d'occidente, che poeti
mantengono d'Apollo in signoria.
Spesso mi fu narrato d'una vasta
landa cui tiene in suo dominio Omero
dalla fronte profonda; eppure mai,
giammai ho respirato la sua pura
serenità, finché io non udii
Chapman parlare forte e audace: allora
simile ad uno che nei cieli scruta
io mi sentii, quando un nuovo pianeta
nuota sotto il suo sguardo; o al valoroso
Cortés quando fissò con occhi d'aquila
il Pacifico - e tutti i suoi compagni
con febbrile incertezza si guardarono -
silente, sopra un picco in Darién.


In questo giardino, che ricorda vagamente l'ambientazione de 'Il carteggio Aspern', inizia la mia ricerca al giardino descritto da Henry James. Tutto è appena cominciato.

 

martedì 9 agosto 2011

Lo spazio molle

Le Cercle Fermé è il titolo dell’installazione che Martine Feipel e Jean Bechameil hanno realizzato all’interno di Ca’ del Duca sede per l’occasione del Padiglione del Lussemburgo. Si tratta di una serie di stanze alle quali si viene introdotti percorrendo un corridoio stretto e bianco, le cui pareti e decorazioni sembrano essere state deformate da forze ondulatorie che hanno originato uno spazio molle, lungo il quale l’andatura di chi lo percorre ne subisce l’influenza. La sensazione d’instabilità è amplificata dal riflesso del corridoio nello specchio posizionato sul fondo. Le forme sciolte continuano con una serie di cassetti di gomma dipinta di bianco che rivestono le pareti, parzialmente aperti e pendenti dalla loro sede. Il gioco di specchi continua moltiplicato nelle stanze successive dove lo spazio e la riflessione del visitatore subiscono deformazioni da ambientazione Escheriana, con effetti di ripetizione e aberrazioni visive. La stanza delle colonne infine, eterea ma allo stesso tempo claustrofobica.







L’installazione è pensata come una serie di eventi site specific che portano il visitatore a sperimentare diverse idee di spazialità, lavorando su un’idea di spazio fluido e illusorio, a tratti ipnotico che molto deve agli orologi molli di Dalì, così come si ravvede un’assonanza con i meandri di ferro di Richard Serra nei quali le pareti inclinate danno un senso di vertigine. Le similitudini continuano in ambito architettonico/fashion perché non c’è molta differenza fra questi spazi e ad esempio il negozio di Viktor & Rolf a Milano, datato 2007, dove tutto è al contrario, perché anche in questo caso l’intenzione è quella di sorprendere e condurre il visitatore in uno spazio onirico nel quale sperimentare ‘nuove spazialità’, ma probabilmente con molte meno implicazioni filosofiche a sostegno di un’operazione squisitamente ludica. Nell’installazione di Ca’ del Duca invece, sebbene probabilmente non vi sia all’origine, esiste una componente ironica che dialoga con lo spettatore ed è proprio questa la dimensione ‘spaziale’ interessante da cui si può trarre delle suggestioni quando si progetta uno spazio.