sabato 15 agosto 2015

Flâneur veneziano n°1. O dell'in-Cubo

La disciplina sportiva in cui eccello è decisamente il "Flâneur " con buona pace di Baudelaire. Immergersi nella città sino a fondersi con essa per capirne gli spazi, fisici e umani è un allenamento per i sensi e l'anima.
Durante queste performance atletiche (e pregasi notare l'ironia), incontri inaspettati descrivono le trasformazioni di Venezia.
Così come si preferisce avere prima le brutte notizie, a Piazzale Roma hanno pensato bene di coagulare il brutto affinché tutto il resto, nonché la volgarità umana (?), sia meno appariscente. 
Uno dei peggiori difetti di un architetto è l'arroganza con cui si sente in diritto di disseminare segni del suo passaggio e tracce del proprio ego sulla terra, ritenendosi in dovere di
anteporre l'espressione del proprio io alla storia e al territorio su cui interviene. Il più recente e fulgido esempio si trova ancora una volta a Venezia in quello che si candida ad essere il ricettacolo degli sfoghi para-artistici della città. Qualcuno potrebbe chiamarlo 'laboratorio', per me semplicemente simbolo di mancanza di governo, inteso come progetto complessivo dotato di logica.
Forme primitive sembrano essere spuntate dal nulla, tant'è che la responsabilità sembra essere equamente distribuita da non essere imputabile, alla fine, a nessuno.
I nostri occhi sono già congestionati da flussi di immagini pornografiche (nell'accezione di sterili, gratuite che non producono nulla), tanto che non escludo che tra qualche tempo un simile gesto verrà superato da un altro di eguale portata espressiva. 
Calato dal cielo come un meteorite, un monolite nero, sospeso, taglia il piazzale. 

Trattasi di un 'segno grafico essenziale' (vedasi massimo risparmio energetico/creativo), ovvero una pensilina per i tram, che purtroppo ostruisce la vista del Garage San Marco, quello sì futurista, purtroppo da anni privato della scritta a caratteri cubitali CAMPARI che da lontano era come un faro quando si percorreva il Ponte della Libertà. Sarà per affinità cromatica ma la pensilina del tram dialoga con un altro oggetto monolitico ma defilato, il nuovo tribunale, così che l'impatto visivo risulta essere meno disturbante per quanto stridente. Se non altro da una certa posizione si può leggere come un rigo nero che cancella la vista di ciò che sta sullo sfondo e che fra poco vedremo. Intanto davanti passa un gruppo di adolescenti in serie dotati di zainetto, smart phone e auricolare, maxi canotte da basket, taglio di tendenza, camminando con passo sciatto e bestemmiando per aver sbagliato la fermata dell'autobus. C'è qualcosa di primitivo in loro, ma in quanto regressione suona come una distorsione irrecuperabile.
Come l'orecchio percepisce la dissonanza, così l'occhio percepisce la disarmonia. Il mio sguardo torna al monoblocco bianco, infatti è chiaro che il Cubo non dialoga con nulla attorno a sè. Nemmeno col Cascatrava (citando Arrigo Cipriani), chiuso anch'esso in un monologo autoreferenziale. L'arretramento di una parte della facciata, adiacente al vecchio albergo, riprende, spero, la lezione di Gardella alla Zattere, ma lì il vocabolario veneziano venne studiato, compreso ed elaborato, articolando delle facciate in rapporto dialettico con lo spazio e la storia circostante. In questo caso invece l'intervento risulto avulso da qualsiasi rapporto col contesto.
Attraverso questa enclave delle sperimentazioni dall'esito tragicomico (perché ci deve essere dell'ironia in tutto questo, o fanno sul serio?), e mi dirigo verso il ponte. Vibra. Vibra sopratutto camminando sulle lastre di vetro, sarà per questo che la maggioranza delle persone cammina al centro. Una signora ad alta voce indicando il cubo: 'Dobbiamo ringraziare gli architetti!' con disprezzo per nulla celato e gesto ampio del braccio ad indicarlo. Qualcuno lo guarda con perplessità, per altri non c'è tempo che l'autobus passa, altri preferiscono fotografarsi dall'altro lato perché il garage ha sempre il suo fascino.
Il caso vuole che scendendo dal ponte, approdata in quell'isola che subisce la spinta dovuta al peso del ponte stesso, vedo arrivare in senso contrario al mio, il neo sindaco. Un giovane emozionato lo ferma, e lui subito annulla le distanze commentando la scritta sulla sua t-shirt, con un sorriso fragoroso che allenta la tensione del suo interlocutore. 
La scena avviene mentre scatto questa foto, vorrei chiedergli cosa ne pensa al di là delle dichiarazioni riportate dalla stampa, dal momento che l'interesse che esprime per la città e l'intero comune sembra sincero, purché l'entusiasmo non faccia incorrere in errori di valutazione nel tempo di un tweet. Meglio riprendere il Flâneur. 
Camminando ripenso che una delle lezioni più importanti nello studio del disegno dal vero è quella dell'ultimo segno, ovvero 'quando fermarsi'. Allo stesso modo la medesima regola può essere applicata alla progettazione architettonica quando forma e ornato sono essenziali al significato di quello stesso intervento architettonico. Bisogna avvertire il momento in cui un segno in più sarebbe ridondante o al contrario necessario. 
I miei passi cercano luoghi di bellezza per compensare quanto visto fin'ora, e mi sento un po' come la 'donna atlante' che incontro dietro l'angolo di una calle. Porta sulle spalle tutto il peso del mondo, come un'anziana Venezia che fa uno sforzo atletico immane a tenere il capo alzato per mantenere la rotta e non sprofondare nell'arroganza di chi non ha gli strumenti per capirla.

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