sabato 30 luglio 2011

Talking heads

Arrivando da Campo Santo Stefano verso Campo San Samuele, ci si imbatte in una pedana rossa che invita a salire e ad affacciarsi ad una finestra per spiare all’interno e incrociare lo sguardo di due homeless intenti a parlare. È l’installazione di sculture parlanti del duo svizzero Glaser/Kunz. L’effetto è straniante perché se da una parte ci si rende conto di essere davanti a dei manichini, la resa della proiezione sulle teste, modellate sul calco degli attori, fa sì che il dubbio di essere davanti ad esseri viventi o ad una macchina ‘pensante’ in grado di seguirti con lo sguardo, esista, e sia motivato dal fatto che il sistema di proiezione non è visibile, sapientemente nascosto all’interno dei sacchetti di cartone posizionati ‘casualmente’ davanti alle teste. Siamo al piano terra del Palazzo Malipiero, abitato per l’occasione da degli homeless parlanti, seduti a terra, ma sospesi in un dialogo sulla loro condizione umana che ricorda Beckett, tanto che si ha l’impressione di essere il Godot che stanno aspettando. L’effetto è amplificato se ad assistere al dialogo si è da soli e le stanze non sono ancora popolate da esseri viventi, perché allora si avrà la sensazione di partecipare ad un evento senza averne l’invito, di vedere una sorta di cinema tridimensionale e polisensoriale, a tratti disturbante ma coinvolgente.


In questo caso l’operazione di Glaser/Kunnz potrebbe sollecitare diversi ambiti artistici (penso ad una sfilata di Gaultier dove i volti di famose attrici venivano proiettati sul velo indossato da una modella) e un diverso approccio al racconto teatrale.

martedì 26 luglio 2011

Il debutto dell'Andorra

In campo San Samuele, nell’omonima chiesa, viene ospitato il Padiglione dell’Andorra, che per la prima volta partecipa alla Biennale. La sede è preziosa e l’esposizione si è rivelata all’altezza, perché nello stesso ambiente si riesce ad avere una lettura scorrevole e una conseguente comprensione chiara di ciò che viene esposto. Gli artisti sono Helena Guàrdia con ‘Ciutat Flotant’ e Francisco Sánchez con ‘L’Efímer i l’etern’, i quali presentano un lavoro sulla percezione visiva della realtà, deformata da strumenti fisici o mentali. Al primo caso appartiene Helena Guàrdia la quale lavora con la fotografie digitali che ritraggono la realtà deformata attraverso specchi concavi. Il risultato sono una serie di immagini che documentano le sue divagazioni visive, presentate come un tributo alla città di Venezia nella veste di città fluttuante. Di fatto ciò che si può cogliere è che deve essere molto più interessante l’esperienza personale di Helena Guàrdia nel suo ricercare nella città punti di vista deformati, piuttosto che la rappresentazione a grande scala di una troppo esigua selezione di foto; perché scalare un’idea non ne amplifica il concetto, ma rischia l’effetto contrario. Probabilmente la scelta di più foto a scala minore avrebbe reso più suggestiva l’esposizione.

Francisco Sànchez invece presenta un trittico realizzato con grafite, che rappresenta una realtà onirica e molecolare, con una capacità tecnica che esalta il disegno, arte dimenticata in favore di un più spicciolo approccio tecnologico all’arte, con conseguente appiattimento della cultura artistica. Sono disegni i suoi che confortano dopo tanta tecnologia, che l’arte possa rappresentare spazi altri con tecniche tradizionali senza diventare accademica.


Per entrambi i protagonisti viene proiettato un breve video nel quale sono resi chiari i due tipi di ricerca e il senso dei lavori, il che contribuisce in modo sostanziale a dare una lettura rapida e chiara del lavoro dei protagonisti.

domenica 10 luglio 2011

Da un punto/ponte di vista

Diversi palazzi veneziani sono diventati sede di esposizioni di vario genere in occasione della Biennale, e camminare in città significa anche essere attirati in spazi che si aprono all’improvviso, alla fine di una calle, o in altri casi ci si può trovare a seguire il fievole suono di un pianoforte che arriva da un palazzo sul Canal Grande, oppure può capitare che il profilo del canale che conosci bene sia improvvisamente cambiato e spunti una struttura ramificata che per quanto organica emerge come un organismo estraneo, o ancora una casetta unifamiliare borghese spigolosa, oppure l’orrore che minaccia il ponte dell’Accademia.

È da questo ponte e dallo stesso punto di vista, che se si punta lo sguardo verso destra si nota la struttura temporanea e in divenire di Big Bamboo di Doug e Mike Starn portata in città da Hogan, una sorta di torre di Tatlin dall’aspetto più precario, la cui salita è solo per spiriti indomiti che non conoscano le vertigini, ma il fascino e l'allegria infantile che suscita nei visitatori è per tutti.



Se si gira invece, lo sguardo verso la riva sinistra del canale, ci aspetta la Narrow House di Erwin Wurm; una forma che disturba lo sguardo, soprattutto se paragonata allo spazio in cui è collocata. Non è un'aberrazione dello sguardo ma una casa dall'aspetto così rassicurante che nasconde in realtà delle deformazioni tali da risultare compressa. In effetti nell’intenzione è la metafora della società austriaca, opprimente e soffocante nella quale l’autore dice di essere cresciuto; esperienza nota anche se per alcuni non immediatamente intellegibile.


  
Se si guarda davanti a sé, purtroppo appare una terza ‘installazione’, questa volta indecorosa, di lucchetti nuovamente comparsi dopo essere già stati rimossi. Ne risparmierei l’immagine, ma credo che l’arte abbia la responsabilità di educare al bello e finché truppe di sedicenti artisti e scrittori continueranno a prediligere immagini e spazi disturbanti, nei quali il concetto di bellezza e armonia vengono stravolti in virtù di un arte che s’ispira alla realtà, ma di fatto risponde a logiche di marketing, allora non mi stupirebbe se l’infilata di ganci fosse confusa con una installazione concettuale sull’interconnessione di spiriti raminghi. Mentre se proprio dovesse avere un senso potrebbe essere quello della stupidità umana.


domenica 3 luglio 2011

Future Pass - From Asia to the World

Eye Fairy, di Chen Fei & Luo Hui

Nella trecentesca Abbazia di San Gregorio, aperta dopo un pregevole restauro, viene ospitata in occasione della Biennale, dalla Fondazione Buziol, la mostra Future Pass-From Asia to the World, nella quale si ha l’occasione di vedere una summa dell’arte attuale asiatica per provenienza ed ispirazione. È un’esposizione allegra dove della selezione colpisce il fatto che vi sia un uso spregiudicato ma controllato del colore e della scelta dei soggetti, talvolta al limite del caricaturale, e che se da una parte persiste il segno delle antiche stampe, senza alcun carattere stereotipato, vedasi ‘Return Home’ di Ye Yongqing, dall’altra delle opere che sembrano essere mutuate dal linguaggio manga, trasformato in nuova estetica.

E se da una parte vi è la rappresentanza diretta di artisti asiatici, fusi completamente nella loro cultura pop-gloss, dall’altra vi sono casi inversi come quello di Simone Legno aka Tokidoki il quale ha fatto suo l’immaginario giapponese fino a creare un marchio e grafiche ispirate all’arte nipponica, dall’estetica manga e fumettosa, colorata divertente e ironica, nella quale traspare a volte la patina dello sfumato europeo. È interessante come vi sia un legame con il design in questi artisti, perché oltre a Tokidoki vi è anche la presenza di Takashi Murakami già creatore di un patterns per Luis Vuitton, al limite fra pittura grafica e design.

Nel complesso le opere popolano lo spazio come nuovi personaggi mitologici, allora si può essere sorvegliati da un guerrigliero piccolo ma non per questo meno minaccioso, che fa sentinella davanti ad una finestra,



volti giganti dall’espressione imperscrutabile e dalle tinte jelly che cercano di ammaliare,



umanoidi giocattoli vestiti dell’arte del secolo scorso, giochi per gli occhi, e un enorme, solitario occhio nel quale specchiarsi.







sabato 2 luglio 2011

Per caso e no

Alla fine ci sono tornata per caso e per volontà. Per caso perché non avevo in mente di recarmi in zona a breve, e invece è capitato, per volontà perché l’ho visto dalla provinciale e mi è sembrato un atto dovuto verso il luogo stesso e verso i miei ricordi personali. Mi aspettavo di trovare dei segni del tempo che avessero scalfito la materia, invece le superfici e le forme scarpiane hanno mantenuto intatto il loro fascino. Sarà il destino delle architetture sospese in un tempo a parte o più concretamente alla cura dei custodi e del comune, ma la Tomba Brion di Carlo Scarpa, a San Vito di Altivole, convive con la natura e il tempo in armonia assoluta. Il percorso fatto di inviti, trabocchetti, sorprese, ed episodi celati ad un primo sguardo, porta il visitatore a sviluppare un racconto durante il cammino, e fare un’esperienza diversa ogni volta degli stessi spazi. D’altra parte l’architettura deve essere il racconto di un evento, e deve per durare nel tempo instaurare un dialogo fertile con l’uomo per produrre altre storie.




C’è un dettaglio che ho scoperto e non ricordo di aver mai letto qualcosa a riguardo. Nella chiesa, davanti all’altare c’è una lastra di pietra fissata da due borchie, di cui una di dimensione più grande rispetto all’altra. Siccome nulla è a caso, mi sono ricordata dei giochi prospettici barocchi, quindi mi sono fermata sopra alla borchia e ho semplicemente alzato la testa, per vedere che era al centro dell’intersecazione dei due quadrati scalettati della copertura.



Mi colpisce sempre come un caso architettonico così defilato sia visitato da persone di luoghi e culture lontanissime. Anni fa ci incontrai dei monaci buddisti, l’ultima volta sul registro delle viste degli ideogrammi cinesi, a conferma di come il senso del sacro possa superare le barriere culturali e diventare sentimento universale.