Non è certo lo stato d'animo che meglio mi descrive, ma per qualche istante mi ha fatto compagnia come l'ombra durante il flâneur veneziano.
Dopo giorni inquieti la città mi riaccoglie sempre protettiva. Il Caffè Rosso in Campo Santa Margherita è già il primo conforto, così come l'odore del salso, del banco del pesce e la verdura sulla barca. La vetrina della storica libreria mi confonde, tanto da avere il dubbio se il libro di Arnheim sul pensiero visuale che sto comprando non l'abbia già. Suvvia non preoccupiamoci, un po' di leggerezza.
Con tale disposizione affronto il Guatemala. Non l'intero stato certo, ma il padiglione della Biennale. Vorrei vedere un'espressione personale della cultura di ogni stato, invece spesso si privilegia l'assembramento di artisti di varia nazionalità su un tema comune, e magari allineati su un gusto addomesticato secondo la tendenza del momento, tale che l'espressione sia già vecchia e quindi anacronistica. In questo c'è un'idea estetica manierista della morte, per cui la maschera che cola sulle tempie di Gustav von Aschenbach nella scena finale di Morte a Venezia suggerisce altre maschere che sembrano più voler provocare che essere una citazione del cimitero Chichicastenango dove il colore esorcizza la morte.
A Grenada su di un muro una scritta invita a lasciare giocare i bambini, e l'Angola, al Conservatorio Benedetto Marcello, sembra rispondere con un video sull'assenza e immaginazione di quattro bambini seduti dentro alla sabbia, come in Giorni Felici di Beckett, impegnati in un viaggio ludico che è allo stesso tempo una critica di quanto il consumismo influenzi anche il nostro immaginario.
Cerchiamo di volare più in alto. Intanto cominciamo a fare le scale. Dalla corte interna del conservatorio si sale lungo la scala monumentale per visitare la mostra The sound of creation of sound paintings di Beezy Bailey e Brian Eno.
Lungo il percorso, nelle nicchie laterali sono inseriti i quadri, alcuni dei quali associati a della musica ascoltabile in cuffia. Come in un loop, si continua a salire chiedendosi il perché di tale iterazione, e perché la musica non sia diffusa. E' semplice, salendo, soffermarsi ad osservare la città che si abbassa. I suoni esterni si annullano, il caldo aumenta e le domande concettose sull'allestimento evaporano. Al quanto piano siamo io, delle tele da osservare, dei suoni da sentire, uno scalone la cui prospettiva mi invita a salire per continuare il loop e vedere come va a finire. Al quinto non è ancora la fine, la scala si fa piccola e un po' più piccola, da una porta s'intravede una stanza con delle altre tele. Vi entro, dalle inferriate i tetti di Dorsoduro e un mostro marino ad alterare lo skyline.
Basterebbe questa vista, ma l'infittirsi delle tele e un'altra rampa di scale, ora più modesta ma non meno elegante, conduce al sesto. Attenzione ai gradini, c'è scritto ovunque girato l'angolo, perché ora tre gradini di legno conducono alla vetta dove tutto si comprende. Il suono è diffuso, la musica di Eno è diffusa in due piccole stanze spoglie, dei cubi dove sedersi e ammirare dagli occhi ovali la vista a 270° della città. La musica, la pittura, la bellezza intorno placano la fatica e non posso non pensare al privilegio di trovarmici difronte.
Sarà per le finestre ovali ad occhio, ma questa è un'altra delle stanze della mia casa diffusa.
A malincuore scendo. Ma tornerò.
Con animo lieve mi dileguo dal centro per una zona meno frequentata. Per la prima volta è aperto al pubblico uno dei giardini più belli della città, quello di Palazzo Soranzo Cappello. L'occasione è la mostra di sculture di Sebastian Matta. Il muro che da sul rio non fa presagire nulla dell'incanto a cui si va incontro. Al di là ecco una delle ambientazioni perfette per il giardino del Carteggio Aspern. Si entra in un prato nel quale ci attendono le prime sculture di Matta, come guardiani verdi di quel verde nel quale sono quasi mimetizzati. Le forme sono primitive, immaginarie e talvolta immaginarie, esseri silenziosi che in quel'ambiente sembrano momentaneamente fermi per soddisfare il loro ruolo di statue.
Mi aspetto che al mio passaggio rilassino le giunture per tornare in posizione se mi volto all'improvviso. Il sentiero ombreggiato da esili strutture verdi, è solo il preambolo della zona successiva. Qui robinie, querce, limoni e il profumo di sambuco accompagnano la visita fino alla loggia e alla parte opposta, i guardiani e le sculture sono colti con ancora sui volti l'espressione che avevano quando hanno interrotto la conversazione al mio arrivo. Difficile non entrare in dialogo con la natura presente e quella umana trasposta nelle opere di Matta. Ma arriva anche qui il tempo di lasciarci. Saluto l'esercito di bronzo. Ma sappiamo entrambi che è un arrivederci.
Dopo giorni inquieti la città mi riaccoglie sempre protettiva. Il Caffè Rosso in Campo Santa Margherita è già il primo conforto, così come l'odore del salso, del banco del pesce e la verdura sulla barca. La vetrina della storica libreria mi confonde, tanto da avere il dubbio se il libro di Arnheim sul pensiero visuale che sto comprando non l'abbia già. Suvvia non preoccupiamoci, un po' di leggerezza.
Con tale disposizione affronto il Guatemala. Non l'intero stato certo, ma il padiglione della Biennale. Vorrei vedere un'espressione personale della cultura di ogni stato, invece spesso si privilegia l'assembramento di artisti di varia nazionalità su un tema comune, e magari allineati su un gusto addomesticato secondo la tendenza del momento, tale che l'espressione sia già vecchia e quindi anacronistica. In questo c'è un'idea estetica manierista della morte, per cui la maschera che cola sulle tempie di Gustav von Aschenbach nella scena finale di Morte a Venezia suggerisce altre maschere che sembrano più voler provocare che essere una citazione del cimitero Chichicastenango dove il colore esorcizza la morte.
A Grenada su di un muro una scritta invita a lasciare giocare i bambini, e l'Angola, al Conservatorio Benedetto Marcello, sembra rispondere con un video sull'assenza e immaginazione di quattro bambini seduti dentro alla sabbia, come in Giorni Felici di Beckett, impegnati in un viaggio ludico che è allo stesso tempo una critica di quanto il consumismo influenzi anche il nostro immaginario.
Cerchiamo di volare più in alto. Intanto cominciamo a fare le scale. Dalla corte interna del conservatorio si sale lungo la scala monumentale per visitare la mostra The sound of creation of sound paintings di Beezy Bailey e Brian Eno.
Lungo il percorso, nelle nicchie laterali sono inseriti i quadri, alcuni dei quali associati a della musica ascoltabile in cuffia. Come in un loop, si continua a salire chiedendosi il perché di tale iterazione, e perché la musica non sia diffusa. E' semplice, salendo, soffermarsi ad osservare la città che si abbassa. I suoni esterni si annullano, il caldo aumenta e le domande concettose sull'allestimento evaporano. Al quanto piano siamo io, delle tele da osservare, dei suoni da sentire, uno scalone la cui prospettiva mi invita a salire per continuare il loop e vedere come va a finire. Al quinto non è ancora la fine, la scala si fa piccola e un po' più piccola, da una porta s'intravede una stanza con delle altre tele. Vi entro, dalle inferriate i tetti di Dorsoduro e un mostro marino ad alterare lo skyline.
Basterebbe questa vista, ma l'infittirsi delle tele e un'altra rampa di scale, ora più modesta ma non meno elegante, conduce al sesto. Attenzione ai gradini, c'è scritto ovunque girato l'angolo, perché ora tre gradini di legno conducono alla vetta dove tutto si comprende. Il suono è diffuso, la musica di Eno è diffusa in due piccole stanze spoglie, dei cubi dove sedersi e ammirare dagli occhi ovali la vista a 270° della città. La musica, la pittura, la bellezza intorno placano la fatica e non posso non pensare al privilegio di trovarmici difronte.
Sarà per le finestre ovali ad occhio, ma questa è un'altra delle stanze della mia casa diffusa.
A malincuore scendo. Ma tornerò.
Con animo lieve mi dileguo dal centro per una zona meno frequentata. Per la prima volta è aperto al pubblico uno dei giardini più belli della città, quello di Palazzo Soranzo Cappello. L'occasione è la mostra di sculture di Sebastian Matta. Il muro che da sul rio non fa presagire nulla dell'incanto a cui si va incontro. Al di là ecco una delle ambientazioni perfette per il giardino del Carteggio Aspern. Si entra in un prato nel quale ci attendono le prime sculture di Matta, come guardiani verdi di quel verde nel quale sono quasi mimetizzati. Le forme sono primitive, immaginarie e talvolta immaginarie, esseri silenziosi che in quel'ambiente sembrano momentaneamente fermi per soddisfare il loro ruolo di statue.
Mi aspetto che al mio passaggio rilassino le giunture per tornare in posizione se mi volto all'improvviso. Il sentiero ombreggiato da esili strutture verdi, è solo il preambolo della zona successiva. Qui robinie, querce, limoni e il profumo di sambuco accompagnano la visita fino alla loggia e alla parte opposta, i guardiani e le sculture sono colti con ancora sui volti l'espressione che avevano quando hanno interrotto la conversazione al mio arrivo. Difficile non entrare in dialogo con la natura presente e quella umana trasposta nelle opere di Matta. Ma arriva anche qui il tempo di lasciarci. Saluto l'esercito di bronzo. Ma sappiamo entrambi che è un arrivederci.
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